
Nell'attesa estenuante e dolente che quotidianamente ormai viviamo rispetto al terribile conflitto israelo-palestinese, è importante confrontarsi nuovamente, affrontando le ultime notizie che giungono come potenzialmente cruciali per le sorti e gli equilibri della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, dell'intero Medioriente e così degli assetti geopolitici globali che a quelle terre - sappiamo bene - sono strettamente connessi.
Andrea de Bertolini, "Il T Quotidiano", 17 ottobre 2025
Poterci ritrovare oggi, nel riconoscere essersi compiuto finalmente un passo atteso. Per l'avvenuta liberazione degli ostaggi sopravvissuti; per la riconsegna dei corpi degli ostaggi morti a chi sopravvissuto rimane ormai marchiato dallo scempio terrorista di Hamas del 7 ottobre; per la liberazione di palestinesi detenuti in Israele. Per la fine di un massacro voluto dal presidente Netanyahu e dal suo governo che nella sua brutale sproporzione rimane per quell'esecutivo fattore di responsabilità politica insuperabile.
La firma dell'Accordo di pace, seppur sfilacciato sul futuro di Gaza, sulla nascita dello Stato palestinese, quindi incerto sulla sua stessa tenuta per un definitivo cessate il fuoco che non sia solo tregua, è comunque momento non solo di valore simbolico ma anche un primo momento per quel complicatissimo percorso che, se non di una pacificazione ancora troppo lontana, sia almeno di pace.
Condizioni per ora raggiunte, inscindibilmente necessarie alla sopravvivenza di quella - riconosciuta da ebraismo, cristianesimo e islam - Terra Santa, violentata nella sua stessa essenza spirituale da un'umanità fratricida, che permettono di rianimare quel diritto alla speranza che anche in Italia, al netto di non accettabili eccessi radicalizzanti (e in questo sta per esempio la ferma solidarietà alla nostra giornalista trentina, Elisa Dossi, da ultimo aggredita a Udine da manifestanti), ha mosso seppur in modi e con sensibilità diverse migliaia di persone riconosciutesi in un comune denominatore valoriale meta partitico.
Condizioni necessarie anche al portare finalmente - per quanto troppo tardi - aiuti umanitari a civili innocenti. In grado almeno di riaffermare da subito la tutela di diritti fondamentali e della dignità umana che, nelle loro riconosciute universalità, vorremmo - non utopisticamente - fossero l'alfabeto minimo del linguaggio fra i popoli. Un esperanto valoriale, ancora radicato e sopravvivente nelle coscienze individuali, che nei conflitti fra persone, popoli, Stati, sia in grado di fungere da fattore di disinnesco. Capace di suturare laceranti fratture sociali così consegnandosi al mondo come autentico e unico antidoto che possa salvare tutti noi dall'impietoso giudizio storico della dannazione morale di un'umanità mortifera votata all'auto-annientamento.
Il coraggio di fermarsi. Il coraggio di sapere che lo si può (lo si deve) fare. È, dunque, corretto riconoscere un primo passo di un lungo cammino ancora tutto in divenire. Certamente impervio. Che dovrà portare, in un complesso percorso di pacificazione, due popoli - due Stati - alla convivenza. Sulla ricostruzione di macerie ancora insopportabilmente troppo calde di odio e morte. E in questo incedere, i contenuti dell'Accordo di pace sono determinanti. Così come saranno condizionanti per il futuro i reali e ulteriori negoziati sottesi che coinvolgono ed intrecciano quei Paesi che occupano lo scenario mediorientale e che certamente pretenderanno di avere un peso fors'anche per ciniche utilità.
Ma se va riconosciuto il ruolo di Stati Uniti, Paesi arabi, Turchia - pur con le necessarie cautele per posizioni anche manifestamente inaffidabili che abbiamo imparato a riconoscere e che hanno sconcertato anche da ultimo nell'intervento del presidente degli Stati Uniti alla Knesset - è altrettanto giusto non indulgere in improvvide celebrazioni. Sarebbe un errore banalizzante.
Quel primo passo ora pare vi sia, ma l'irrisolto (non irrisolvibile) è ancora tale. Quella pacificazione che tanto invochiamo non si otterrà solo con un tratto di penna o di confini subiti. Né con sottoscrizioni formali. Né, per certo, grazie a logiche connesse solo ad interessi economici. Ma solo con un autentico impegno politico, diplomatico, giuridico forse mai sino ad oggi del tutto voluto ed agito in grado di favorire processi democratici interni in nome di un'auspicata autodeterminazione.
A fronte di questo scenario, convintamente ritengo ancor più necessario riconoscersi, anche in nome del percorso storico di pacificazione di cui bene sappiamo i nostri territori provinciali sono stati esemplare espressione. Garantendo la vicinanza a quella Terra divisa; nel rispetto di tutti coloro che, anche nella nostra Comunità, credono nel diritto alla speranza. Condividendo politicamente la ferma necessità e il monito che la Comunità internazionale, con l'apporto emancipato di un'Europa non subalterna, pretenda la massima attenzione, vigilando e rafforzando le condizioni anche soprattutto giuridiche che nella tutela dei diritti, delle libertà e della dignità della persona, pongano le proprie fondamenta per un'autentica composizione dei conflitti.