Un attacco a tre punte per i nuovi progressisti

Penso che l’errore più grande che il Pd potrebbe fare in questo momento sia quello di impostare il dibattito sulla sconfitta come una fuga dalla responsabilità della politica nelle rassicuranti e un po’ narcisistiche astrattezze dell’ideologia. D’accordo, le elezioni il Pd le ha perse per tutte le ragioni cosmico-storiche che sempre si invocano in questi casi e per tutte le altre che si possono immaginare.
Giorgio Tonini, "La Repubblica", 26 ottobre 2022

Del resto, sull’affanno della sinistra, in Europa e negli USA, sul terreno della rappresentanza, in particolare tra i ceti popolari, operai in primis, che si sentono (e in gran parte sono) i perdenti della globalizzazione, è difficile dire o scrivere qualcosa di nuovo. Di converso, in tutto l’Occidente, la destra che appare oggi in vantaggio nel rappresentare la frustrazione dei ceti medi impoveriti e impauriti, annaspa poi nel tradurre questa capacità di rappresentanza in risposte di governo realistiche ed efficaci. Giorgia Meloni ne sembra consapevole: forse le è bastato dare un’occhiata al n. 10 di Downing Street. Sono le due facce della stessa difficoltà della politica e della democrazia occidentali, rese visibili dalla fuga dal voto e dal rapido accorciarsi dei cicli politici. Teniamo presente tutto questo, magari insieme alla consapevolezza che, nel tempo che ci è dato vivere, l’unico paradigma alternativo a quello, certamente più che imperfetto, del compromesso liberale tra capitalismo e democrazia, non è il superamento del capitalismo, ma il capitalismo senza libertà.

E tuttavia, sarebbe un disastro se ci dimenticassimo di fare i conti con la ragione principale della sconfitta elettorale, che come sempre è la più semplice, quasi banale: il Pd ha perso perché, al contrario della destra, non aveva una concreta e realistica proposta di governo da avanzare al Paese. Non ha potuto (o saputo) presentarsi agli italiani proponendo la continuazione del governo Draghi, con la sua persona e la sua agenda, peraltro apprezzate entrambe da una larga maggioranza di cittadini, che invece non è stata messa in condizione di esprimere questa preferenza sulla scheda elettorale. Ma non ha potuto (o saputo) neppure far succedere alla stagione del governo Draghi una proposta nuova, che avesse una base di consenso politico sufficientemente ampia da risultare competitiva. E quindi si è ridotto a parlare solo “contro”, sia gli avversari che gli alleati mancati o perduti, e la sua campagna elettorale ha trasmesso più che altro la recriminazione, tutta ideologica, per una sconfitta data già per inevitabile.

Penso che sia da questo dato di realtà che il dibattito nel e sul Pd dovrebbe prendere le mosse. La causa della sconfitta è stata la divisione del nostro campo. Se si fosse votato con un sistema completamente proporzionale, la destra non avrebbe avuto i voti per governare, perché non è maggioranza nel Paese. Oggi ha i seggi per farlo, grazie al fatto che le tre anime della loro coalizione, pur divisissime tra loro su questioni di fondo, hanno saputo presentarsi unite nei collegi uninominali, mentre Pd, Terzo Polo e Cinquestelle, che pure hanno governato insieme per quasi tutta la legislatura, si sono presentati in ordine sparso, regalando la vittoria agli avversari.

Se un simile disastro è potuto accadere, è perché le tre anime del possibile campo alternativo alla destra non sono state capaci di costruire un pensiero comune sulla società italiana mentre governavano insieme, prima con Conte e poi con Draghi. È questa la ragione, vera e profonda, della sconfitta. Il Pd ha subito due diaspore, politiche ed elettorali: una verso l’area del “merito”, rappresentata da Renzi e Calenda, e una verso quella del “bisogno”, incarnata dal movimento di Conte. Questa doppia emorragia può dissanguare e uccidere il Pd. Ma anche condannare un centrosinistra strutturalmente e polemicamente diviso al suo interno ad un destino minoritario e subalterno. Senza una forza riformista che svolga la sua funzione, quella di costruire un’alleanza per il cambiamento, tra il merito e il bisogno, il campo alternativo alla destra si ridurrebbe allo scontro permanente e sterile tra un centro tecnocratico e una sinistra populista. In Germania governa un centrosinistra a tre punte: Spd, Verdi e liberali. Lo ha reso possibile la capacità di evolvere di tutte e tre queste forze. Lo stesso coraggio devono dimostrare ora tutte e tre le punte del centrosinistra italiano. E spetta al Pd la responsabilità di promuovere e guidare questo processo. Sarebbe bene che il dibattito congressuale partisse da qui.