“Aiutarli a casa loro” e “non possiamo accoglierli tutti” sono due slogan sbagliati, che però potrebbero svelare una parte di soluzione. “Aiutarli a casa loro”: certamente é condivisibile da tutti l’idea che ogni persona -a prescindere dal luogo in cui viene al mondo- abbia il diritto non solo di sopravvivere ma di vivere in pace, avendo le risorse necessarie per garantire una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia.
Mattia Civico, 13 luglio 2017
Questo obiettivo non si raggiunge con i muri o impedendo attivamente l’arrivo di chi fugge da condizioni di vita inaccettabili per chiunque, ma mettendo in campo almeno le seguenti tre azioni concrete:
1) investire in cooperazione allo sviluppo e in azioni di supporto alla crescita economica, sociale, educativa. Bene l’idea di un nuovo “piano Marshall” per l’Africa. É tra l’altro una “Operazione giustizia” che dovrebbe essere conseguente ad una “operazione verità”: vi è una relazione molto intrecciata tra la storia dei Paesi africani e il continente europeo che andrebbe riletta e rielaborata;
2) stop alla produzione e all’export di armamenti: questo passaggio sembra banale, ma evidentemente non è per nulla semplice. Le guerre si combattono con le armi. Se il nostro Paese produce ed esporta armi, se l’Europa non inverte la tendenza in questo campo, non possiamo stupirci del costante proliferare di conflitti armati che provocano le tante morti di cui sappiamo il grande numero di migranti che fuggono che vediamo. E’ un errore pensare che produzione e esportazione di armi siano elementi che favoriscono maggiore sicurezza: è vero l’esatto contrario. L’idea poi di sostituire la politica estera con il sostegno a questa o quella parte in conflitto (esportare democrazia si diceva un tempo….) è un grave errore che nel tempo produce danni globali. Lo sappiamo bene: i conflitti sono per loro natura molto instabili e i cambi di fronte sono una prospettiva molto concreta e frequente. Il supposto “buono” che sostieni oggi domani diventerà il tuo peggior nemico. Dunque non è procrastinabile il tema della riconversione dell’industria bellica italiana e lo stop all’export di armi in Africa e Medio Oriente.
3) abbandonare il controllo economico da parte di multinazionali che di fatto impoveriscono i territori di provenienza dei migranti: vengono da Paesi che non sono poveri di risorse, ma sono, nella stragrande maggioranza dei casi, Paesi impoveriti. Paesi ex coloniali nei quali permane una presenza egemone dell’economica europea e multinazionale. Nella consapevolezza che modelli produttivi non basati sullo sfruttamento e sulla manodopera a basso costo, comportano una ridefinizione dei nostri standard di benessere. Ma forse è proprio questa la contraddizione che si fatica ad affrontare.
Con questi tre passaggi potremo forse dire che li stiamo “aiutando a casa loro”. Senza ipocrisie.
Il secondo slogan che sovente si accompagna al primo recita: “non possiamo accoglierli tutti”.
Anche in questo caso l’affermazione, superato il fastidio iniziale, potrebbe contenere una verità, perché “tutti”, se la parola “tutti” ha ancora senso, sono 65 milioni di persone (dati Unhcr), ed è evidente che il nostro Paese non può accogliere 65 milioni di persone. Ma questa non è neppure lontanamente la prospettiva concreta e reale. La stragrande maggioranza di questi “tutti” vivono ancora nel proprio Paese e sono dunque sfollati interni o sono accolti nei Paesi limitrofi ai territori di conflitto. Per limitarsi al Medio Oriente e al conflitto siriano possiamo notare che il Libano, Paese di 4,5 milioni di abitanti, accoglie in questo momento più di 1,5 milioni di rifugiati. La Turchia quasi 2 milioni di persone. La Giordania 650 mila. In Italia attualmente accogliamo circa 200 mila richiedenti asilo.
Dunque dire “tutti” non ha senso. Anche perché il contrario di “tutti” è “nessuno”. Dobbiamo fare la nostra parte: ma qual è la nostra parte?
4) evitare i viaggi della morte. Attivare a livello europeo canali umanitari rivolti a richiedenti asilo, identificati nei Paesi di partenza. Stroncare dunque sul nascere il traffico umano, mettere in salvo chi rischia la vita, ridurre al minimo la possibilità di ingresso di persone non identificate. Se non vogliamo rassegnarci alle morti in mare e ad accogliere i superstiti (si: è questo che stiamo facendo….), dobbiamo occuparci dei percorsi che i migranti fanno per giungere sulle nostre coste: prima che accogliere, proteggere. E proteggere significa andare incontro.
5) differenziare i canali di accesso: definire regole chiare che permettano l’ingresso legale in Europa dei migranti economici. Oggi l’unico ingresso legale si ha con la richiesta d’asilo: da qui l’ingolfamento delle commissioni, i numerosi dinieghi e conseguentemente la moltitudine di persone che permangono nel nostro Paese senza titolo di soggiorno. Così facciamo un enorme regalo alla malavita che rischia di dare più opportunità della via legale.
6) potenziare a livello locale la struttura delle commissioni per la valutazione delle condizioni giuridiche dei richiedenti: non è ammissibili che vi siano tempi di attesa per il primo colloquio spesso superiori ai 12 mesi. La permanenza prolungata e inattiva in una condizione di non definizione è assistenziale e diseducativa e paradossalmente rischia di tradursi in un incentivo economico: per male che vada un anno e mezzo di supporto economico e di accoglienza non si nega a nessuno. Se i tempi fossero molto ridotti (combinato disposto con il punto presedente: differenziare i canali di accesso) sarebbe più semplice gestire accoglienze, integrazione sociale e lavorativa, eventuali rimpatri.
7) verificare il modello di accoglienza oggi in vigore in Italia e connettere le buone prassi: Sprar e accoglienza straordinaria. Dobbiamo chiederci se è funzionale il fatto che a livello nazionale le prefetture deleghino in maniera diretta a strutture private il 100% dell’accoglienza straordinaria di queste persone. A mio avviso il modello trentino del Cinformi, che con meno risorse cura tutti gli aspetti legati alla presenza di richiedenti sul territorio (corsi di lingua, assistenza legale, alloggio e vitto) in raccordo con molti soggetti privati è più funzionale in quanto non delega totalmente al privato, ma mantiene in capo al pubblico la responsabilità di accompagnare la presenza e di gestire in maniera virtuosa l’accoglienza. Investire sull’accoglienza diffusa evitando la concentrazione di grandi numeri nelle stesse località. Urgente a mio avviso pensare a modalità nuove per gestire l’accoglienza successiva al pronunciamento delle commissioni territoriali, nella cosiddetta “terza fase”, quella dell’inegrazione lavorativa e sociale.
8) permessi di soggiorno per “buona integrazione”. Dopo mesi di positiva integrazione e di investimento pubblico non possiamo permettere che buone persone, oneste, che hanno fatto un positivo percorso di relazione con la nostra comunità e che dunque sono una ricchezza per il nostro territorio, non abbiano titolo legale per permanere e che scivolino quindi in una condizione di clandestinità verso condizioni di illegalità. È attiva una campagna di raccolta firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare (che si chiama “Ero straniero”) e che affronta con efficacia questo ed altri temi cruciali. Necessario ed urgente riformare la legge Bossi-Fini.
9) non solo politica ma anche cittadinanza attiva: credo sia fondamentale mettere in evidenza le buone prassi, le positive esperienze di accoglienza ed integrazione che molto spesso vedono i comuni più piccoli o i singoli cittadini come protagonisti. E’ giusto pretendere che la politica faccia la propria parte, ma sarebbe un errore pensare che le istituzioni hanno la possibiltà di risolvere “da sole” un problema tanto complesso. Come cittadini dobbiamo credo entrare nella logica che siamo dentro un processo globale di cui possiamo essere protagonisti invece che vittime. Ognuno può fare la propria parte, a partire dalla disponibilità a informarsi oltre il fango della rete, aprendo a relazioni, cogliendo occasioni di conoscenza e di accompagnamento. Il primo passo per superare la paura dell’ignoto è renderlo meno ignoto. Non vivere i processi migratori come una minaccia passivamente subita, ma come una dinamica che interroga giustamente la stessa identità di un territorio, ma che può vedere i cittadini consapevoli e protagonisti.
10) corridoi umanitari di rientro. I rimpatri e i riaccompagnamenti non possono essere un tabù e dobbiamo pensare seriamente anche ad aiutare coloro che non hanno titolo legale per rimanere o che per le più disparate ragioni non hanno oggettivamente qui un futuro, a rivedere il proprio progetto migratorio. Riaccompagnare invece che espellere: con progetti mirati in accordo con la cooperazione internazionale, finalizzando fondi a progetti di sviluppo locale.
Questi 10 passi concreti non rendono più digeribili due slogan sbagliati, ma mettono le basi per una accoglienza più sostenibile, per rispondere ad un dovere non solo nostro ma anche nostro: in quanto esseri umani.