Karola, Antigone e la paziente giustizia

In queste giornate convulse molti opinionisti e internauti entusiasti, nel commentare le vicende della Sea Watch, hanno accostato la capitana Karola Rackete alla figura dell’eroina greca Antigone. La tragedia scritta da Sofocle ha suscitato fin dall’antichità l’interesse degli studiosi, per le sue complesse implicazioni culturali e ideologiche.
Luca Zeni, "Corriere del Trentino", 4 luglio 2019

Nel tempo si sono succedute letture che hanno individuato in questo racconto il riflesso di antinomie etiche universali come quella tra famiglia e stato, religione e politica, coscienza individuale e ragion di stato, ragione e sentimento, diritto positivo e diritto naturale.

La maggior parte di queste interpretazioni, a partire da quella più celebre e influente di Hegel, tende a vedere nei due personaggi principali della tragedia, Creonte e Antigone, l’incarnazione di due diverse prospettive ideali, entrambe valide, ma tragicamente inconciliabili; altre letture, come quelle lette in questi giorni, invece, mirano ad attribuire il primato ideale ad Antigone, facendone la paladina dei diritti «del cuore» contro la fredda tirannia della legge incarnata dal «despota» Creonte, legittimandone, di fatto, la ribellione.

Consapevole che proprio un testo come quello dell’Antigone, protagonista di infinite riscritture moderne, per sua natura si presta con facilità a interpretare le inquietudini del nostro tempo, e che tutto ciò è sintomo della sua straordinaria vitalità, una lettura più approfondita può fornirci alcuni elementi di riflessione.

Le rappresentazioni tragiche, nell’Atene del V secolo, costituivano un’occasione fondamentale, per i cittadini, di condivisione e rafforzamento dei valori fondanti, religiosi ed etici su cui si basava il vivere della comunità. La vicenda di Antigone, dunque, era parte integrante della «storia sacra» dei Greci; in particolare, era solo uno dei tanti capitoli di un ciclo di storie che vedeva protagonista la «famiglia» dei Labdacidi.

Antigone, in quanto figlia di Edipo, porta sulle spalle le colpe del padre, che l’ha generata tramite un rapporto incestuoso con la madre Giocasta, e quindi «è destinata a finire male»: al pubblico la sua fine tragica non giungeva quindi inaspettata, perché trovava senso all’interno del più ampio quadro della storia della sua famiglia. Quella di Edipo, infatti, è una stirpe maledetta, e i suoi figli devono espiare le colpe del padre, secondo un principio, quello dell’ereditarietà della colpa, che faceva parte del comune sentire dell’epoca, ma che risulta difficilmente accettabile e comprensibile per la mentalità di oggi.

Un altro aspetto da tenere presente è che nell’antichità classica le opere letterarie avevano un fine pedagogico, e comunicavano i valori che tenevano insieme una comunità, che in questo modo vedeva rafforzata e confermata la propria identità. L’arte serviva a rafforzare le credenze condivise, non sovvertirle: ecco perché è difficile pensare che il messaggio dell’Antigone fosse un incitamento alla disobbedienza civile, allo spregio delle leggi che governavano la polis, come invece molte forzature moderne vorrebbero immaginare.

La vicenda di Antigone va dunque collocata nel suo tempo, l’Atene della metà del quinto secolo: è probabile che Sofocle, attivamente coinvolto — anche in prima persona — nella vita politica della città, di orientamento moderato e conservatore, non vedesse di buon occhio lo straripante potere che era nelle mani del democratico Pericle.

La figura di Creonte, che si presenta come un capo di stato rispettoso delle leggi, potrebbe dunque essere ispirata a quella di Pericle, che basava il suo governo sulla difesa intransigente del primato del nomos («Legge»). Inoltre, Pericle si era circondato di filosofi, pensatori, scienziati e intellettuali che diedero vita a un nuovo «umanesimo», un pensiero nuovo dove l’uomo diventava per la prima volta centro dell’universo e artefice del proprio destino. Un pensiero che si pose sicuramente in contrasto con i valori tradizionali della religiosità arcaica, dove l’uomo era ancora in balia del volere imperscrutabile di una divinità garante dell’equilibrio universale, pronta a troncare crudelmente tutto ciò che si innalzava e minacciava il suo primato.

Ecco che il conservatore Sofocle, preoccupato che gli antichi valori etico-religiosi che fino ad allora erano stati patrimonio comune dei suoi concittadini, potessero essere trascurati nella prassi politica della nuova Atene democratica di Pericle, potrebbe aver nascosto tra le pieghe dell’Antigone il suo monito. Che non è, però, quello che pensiamo. Il meraviglioso primo canto del coro dell’Antigone si apre con un inno a quella creatura «terribile e meravigliosa» che è l’uomo: grazie al suo ingegno e alle sue arti ha piegato il mare e la terra alle sue necessità, ha domato tutti gli animali che popolano il mondo conosciuto; ha quasi sconfitto la morte, trovando la cura per mali incurabili. Padrone assoluto di ogni sapere, è ormai libero di volgere le sue conoscenze al bene quanto al male.

Ma solo chi rispetterà le leggi del suo paese e insieme la giustizia degli dei, ammonisce Sofocle, avrà un ruolo di prestigio nella città. Chi si lascerà andare agli eccessi, e all’arroganza, non è degno di essere considerato cittadino (il termine utilizzato è a-polis, privo di città, da cui il termine moderno apolide).

Né Creonte, né Antigone, dunque, chiusi nella loro dogmatica intransigenza, incapaci di aprirsi e di dialogare con l’altro, rappresentano la soluzione a questo doloroso dramma. Solo chi saprà governare con leggi che rispettino entrambe le sensibilità, che diano dignità a entrambe le posizioni potrà «essere considerato grande» per la città. Ecco che, nonostante tutte le nostre resistenze, l’Antigone ci parla ancora. E ci indica, paziente, la strada: niente decreti sicurezza, niente paladine della disobbedienza, ma una battaglia quotidiana, perseverante ed equilibrata, per la giustizia.