Lo sfruttamento ottuso della bellezza alpina, è giunto il momento di porci dei limiti

Apprezzando l’approfondimento che il Corriere del Trentino dedica da tempo ai temi della montagna e dell’utilizzo discutibile che talvolta gli umani ne fanno, anche nella nostra Provincia, vorrei intervenire aggiungendo un tassello, spero utile, alla discussione.
Donata Borgonovo Re, "Corriere del Trentino", 6 maggio 2018

 

Sarà forse sfuggito ai più, ma il Consiglio provinciale lo scorso 11 aprile ha approvato quasi all’unanimità una mozione — presentata da chi scrive — finalizzata ad avviare una seria riflessione sul nostro rapporto con il territorio alpino nel quale viviamo, a partire dall’individuazione di un’idea condivisa su quale sia, o possa essere, una relazione corretta e sostenibile nel tempo delle montagne e delle risorse di cui sono (fino a quando?) generose portatrici.

La mozione, infatti, impegna la giunta ad avviare un confronto con le amministrazioni locali, con gli enti parco, con la Fondazione Dolomiti Unesco (i cui silenzi sono talvolta apparsi imbarazzanti), con la Sat (che pur prendendo comprensibilmente le distanze ha suo malgrado bisogno di una politica sensibile e attiva per raggiungere gli obiettivi desiderati) e con le associazioni ambientaliste e di tutela della montagna per definire chiare «linee guida per l’individuazione delle attività umane incompatibili» con la delicatezza dei territori alpini. Nel contempo, all’esecutivo viene chiesto non solo di «effettuare con rigore i controlli già previsti dalla legislazione vigente» ma pure di «monitorare le situazioni di conflittualità legate a utilizzi di dubbia sostenibilità delle aree alpine, con particolare attenzione alle zone soggette a tutela ambientale e ai territori dolomitici inseriti nei beni Unesco». Azioni che, tutto sommato, in Trentino dovrebbero già essere di ordinaria quotidianità, ma che purtroppo, in mancanza di una consapevole e condivisa strategia di governo della montagna, appaiono timide e inefficaci.

Il caso degli appuntamenti musicali in quota il giorno di Pasqua, capaci di richiamare sul ghiacciaio del Presena e sul monte Spinale migliaia di persone convinte di stare in una discoteca, è solo il più recente di una serie di vicende discutibili (dal raduno dei quad nei territori dolomitici, alla costruzione dello stadio ancora sul Presena, dall’uso inappropriato degli elicotteri alla moltiplicazione degli impianti) che sembrano dimostrare tutta la debolezza del nostro sistema.

Un sistema cui mancano gli strumenti per stabilire cosa è adeguato e compatibile con un uso sostenibile — sul piano ambientale, oltre che sociale ed economico — del territorio e delle risorse alpine, e cosa invece non lo è affatto. Anche se magari appare, nell’immediato, economicamente interessante. Sono convinta, come evidenziavo nella mozione, che questo nostro agire sconsiderato e invasivo nei confronti di territori spesso ancora integri, ma fragili, «non solo costituisce un vulnus per un ambiente già provato da eventi esterni di portata epocale, ma costituisce una pericolosa scelta culturale che favorisce l’affermarsi, nelle persone e nelle comunità, dell’erronea convinzione che non vi sia alcun limite alle proprie scelte e al proprio agire. Ma che anzi, tutto sia possibile (purché la tecnologia offra adeguate soluzioni) e che anche la montagna, persino alle quote più alte, sia in fondo un luogo come gli altri, nel quale oggi la facilità di accesso si accompagna alla replicabilità delle abitudini urbane, anche di quelle peggiori, con il loro inevitabile corollario di criticità» (il testo completo della mozione si trova sul sito www.progettociva.it).

Ricordo un breve commento che Dino Buzzati, scrivendo sul Corriere della Sera nel 1952, dedicò al paventato prolungamento della strada di Misurina verso la Forcella di Lavaredo e l’altopiano delle Tre Cime: «Con che vandalico entusiasmo l’immondo coro degli scappamenti devasterà i purissimi silenzi! Sotto le sdegnose rupi, nelle notti di luna, scintilleranno di luminarie al neon le stazioni di servizio. Su per i canaloni tenebrosi, dove sepolte dalle frane le ossa di qualche alpino ancora giacciono, salirà il crepitio svergognato dei “due tempi”, mescolato a echi di orchestrine». L’opera non è stata realizzata — e chi è stato al rifugio Auronzo è ben consapevole della dimensione dello scampato pericolo — ma il rischio di assuefarci alla banalizzazione e allo sfruttamento ottuso della bellezza alpina è tutto davanti a noi, o forse è tutto dentro di noi. Dentro la costante tentazione dell’Homo Consumens di fare della realtà «un mero oggetto di uso e di dominio», come leggiamo in apertura della «Laudato Sì».

Certamente, siamo tutti consapevoli che le montagne e le comunità che le abitano non sono un museo a cielo aperto né possono trasformarsi in luoghi senza vita. Dobbiamo chiederci però quale sia, oggi, la giusta dimensione per una nuova «civiltà della montagna», che non può essere una mera riproduzione dei modelli di sviluppo tipici di realtà di pianura o di contesti urbani, con il rischio di perpetuare la storica condizione di «sottomissione della montagna alla città» (l’espressione è di Sergio Reolon, compianto presidente della provincia di Belluno, nel suo libro-testamento «Kill Heidi»), né può accontentarsi della retorica della tradizione, cui appoggiarsi non già per assumerne elementi utili a orientare il futuro ma per sfuggire alla fatica del cambiamento.

Per non disperdere il nostro patrimonio ambientale e culturale non resta che porsi alcune domande, a partire dall’interrogarsi su cosa significhi per noi, per le nostre comunità, per le nostre istituzioni, l’abitare un territorio di montagna e su cosa comporti tale peculiare condizione. Quali legami abbiamo con il difficile ma generoso ambiente alpino nel quale siamo immersi? Quali responsabilità sentiamo di assumerci nei confronti di risorse naturali, ambientali e culturali che sono state preservate per secoli e che sembriamo talvolta voler dilapidare attraverso comportamenti e scelte miopi, inappropriate se non decisamente dannose? Cosa è rimasto in noi di quelle «generazioni secolari che volevano e sapevano coltivare il territorio secondo tanta vissuta saggezza, pur senza la ormai vaga e superficiale istruzione moderna, fatta di troppo chiacchere e di poco saper fare» (come scriveva tempo fa, dalle sue Giudicarie, Mario Antolin Mùson)?

Alle istituzioni bisogna chiedere, da un lato, più rigore nell’affrontare le richieste predatorie di talune categorie imprenditoriali, assumendosi la responsabilità di guidare e di sostenere con strumenti idonei e con chiara visione le iniziative economiche, culturali e sociali che nascono dalle comunità, alleandosi con chi promuove modelli sostenibili di sviluppo del territorio. Ma anche i cittadini devono fare la loro parte; anche a noi è chiesto di rinunciare a qualcosa, di limitarci per contribuire a preservare quei beni comuni — materiali o immateriali che siano — che abbiamo il dovere di tutelare per le generazioni future. In questo modo, i Serodoli potranno dormire sonni tranquilli e Cima Tosa continuerà ad alimentare i nostri sogni, con la sua coperta di neve avvolta nel silenzio.